Oak Blues

Oak Blues

A very blues short story

L’aria umida del Delta solcava il suo viso. S’insinuava velocemente nelle rughe, tra la fronte aggrottata; appesantiva i suoi capelli e i suoi vestiti, rendendolo un misto informe di corpo tra il sudato e il molliccio.

Si muoveva a passi sicuri ma, a volte, si fermava, barcollando leggermente verso la sua destra. Sulla sua schiena una grossa chitarra di legno, consunta, quasi emaciata. Nella sua testa, una melodia continua si formava e riformava, continuamente, come una frittata continuamente rivoltata sul fornello.

La sua chitarra, se fosse stata una persona sarebbe sicuramente stata una di quelle giovanissime negrette che spesso sostavano ai bordi delle strade della piantagione di Holly a Memphis, talmente scavate nel sole del Delta da sembrare legno d’ebano bruciato al sole. Loro osservavano continuamente i passanti, stando bene attente a non oltrepassare con lo sguardo i signori e le dame bianche di passaggio; cercavano, quando possibile, di contribuire ai canti della loro gente che, continuamente, veniva gentilmente spronata dai vassalli di Holly Benjamin a raccogliere velocemente il cotone.

Barcollando continuamente, e poi di nuovo, Bob per un istante pensò quasi di cadere sul terreno del pieno Sud. L’erba sembrava fresca, ma in realtà nascondeva una secchezza e una aridità che egli più volte riuscì a sentire a contatto con la sua pelle.

Alcune cadute in passato furono violente e, più di una volta, rischiò quasi di rompersi un dente. Il suo vizio dell’alcool lo rendeva un uomo cieco e sordo, e il suo demone personale lo seguiva dovunque egli andasse. Non riusciva sicuramente a promettersi una vita migliore, dopo tutto ciò che ebbe passato fino a quel momento; lui era convinto, sotto il sole del Delta, che la sua vita sarebbe stata tutta lì.

Una volta, Bob cadde. Sentì una caviglia quasi contorcersi, ma il suo dolore era commisurato alla quantità di alcool che egli teneva in corpo: non capì cosa fosse successo, e non vide un bifolco dai capelli dorati che lo osservava divertito dall’altro lato del fosso che separava la strada dall’ennesima piantagione di cotone.

“Negro!” gli urlò l’uomo. “Yo’ little nigga!” continuò a urlare. “Questo non è posto per te, amico!”

Qualche metro più in là, a testa bassa, altri negri continuavano a raccogliere manualmente l’oro bianco. Bob aprì gli occhi e vide riflesso, in un certo modo, lo stesso splendore che osservava alla piantagione di Holly Benjamin, ad Memphis. Filari e filari di cotone venivano quasi cotti al sole, mentre la testa bassa di altri negri come lui continuavano silenziosamente e con occhi stanchi a raccogliere la bambagia.

Istintivamente si ricordò della baracca in cui visse, e il suo unico pensiero, ricordando fugacemente la sua infanzia, su semplicemente la rinnovata consapevolezza di un fatto che avrebbe sempre portato con sé: tutto il mondo è uguale, tutto quanto.

Quello che Bob non riuscì a vedere, immerso nel suo leggero coma etilico, fu che l’uomo bianco non era da solo. Almeno sei uomini, tutti splendenti come il cotone nei loro vestiti di stracci, lo avevano accerchiato. Ridevano, in circolo, e sembrava quasi un sabba di streghe svolto sotto l’atroce meriggio del sud.

“Che ne facciamo di questo qua?” sentì dire in un dialetto contrito, aspro, che non sentiva da molto. Ridevano, e alcuni avevano fucili sottomano. I negri continuavano ad affondare le dure mani nella bambagia, continuando ad osservare con lo sguardo solamente il cotone. Di null’altro vollero immischiarsi.

“Lo sceriffo è dalla nostra! Attacchiamolo in croce questa notte?”

Bob rinvenne e strabuzzò gli occhi, ma fece finta di essere di privo di sensi. Vi riuscì fino a quando il più grosso non gli mollò un calcio sullo stinco, facendolo vomitare e gemere per qualche secondo.

“Ah! Il negro è vivo!” urlò uno di loro. “E’ vivo!”

“E lo chiami vivo?” disse un altro. “Tutti questi negri sono morti che camminano, e nemmeno lo sanno. Sono cadaveri che Dio ci ha mandato per poterci sputare sopra!”

Gli altri uomini risero. Dissero a Dayton, quest’uomo nervoso che sputava letteralmente sui neri e che diventava invece servile e pacato coi bianchi, che il suo odio per loro era derivato da una “scopata extraconiugale di un negraccio con sua moglie”. Dayton non fece in tempo ad assimilare la battuta che diede altri calci profondi al povero Bob, agonizzante sul terreno.

Tutti risero. “Se lo è scopata per bene, Dean!” urlò uno in direzione a Dayton. “Con quel brutto e schifoso cazzone negro!” ripeté un altro, tra le risa. E ogni presa in giro, ogni insulto, Dayton Dean divenne sempre più incazzato con il mondo ma, sopratutto, incazzato marcio con il povero Bob.

“Tornatene da dove sei venuto, cesso merdoso!”, urlò. “Per gli Stati confederati”, continuò a urlare, utilizzando frasi sconnesse. “Feccia! Bastardo! Rottinculo! Non sai chi siamo? Siamo il terrore di voi negri! E per sterminare voi negri, ci vogliono altri negri!”

Le risate ad un certo punto smisero, quando Bob iniziò seriamente a sussultare e a rantolare. Fu in quell’istante che il gruppo dei sei bifolchi lo osservò meglio, e presero la sua chitarra emaciata, quasi strappando il petto dell’uomo a terra.

Uno di loro, un tal John Bradwick, la prese e la osservò meglio, per poi afferrare la testa di Bob dai suoi capelli. Gli sputò in un occhio, e gli chiese se era un musicista.

Bob sussultò un secondo. Le parole non riuscirono ad uscire dalla sua bocca.

John Bradwick gli mollò un sonoro pugno, e qualcuno dei raccoglitori di cotone si voltò per osservarlo. Non ebbero tuttavia la forza di dire nulla, né di intervenire. Erano uomini annullati, che non conoscevano né fuoco né libertà, ed essi stessi, fino a quella sera, non avrebbero mai saputo cosa potesse significare quella parola. Uno degli uomini li rimise al loro posto con un semplice urlo scimmiesco.

Tutto ciò che i bianchi e i neri potevano provare, in quel momento, era la pesantezza umida dell’aria del Delta. Tutti grondavano sudore, dalle tempie fino a ai piedi. I loro vestiti erano intrisi del puzzo del Delta, nessuno escluso.

In quel momento Bob trovò le parole. “Musicista… Signore. Sono un musicista.”

“E che ci fa un musicista negro qui?” urlò John Bradwick indemoniato. “Vai a fottere le galline mentre suoni? Come tutti i negri quando cantano? Nella mia piantagione nessun negro canta!”

Bob voleva accennare un sorriso di sfida, ma non ce la fece. “Io suono e basta, signore” gli disse.

Dayton Dean iniziò ad urlargli addosso frasi indecifrabili, e un altro di loro dovette fermarlo con le braccia. Questo sicuramente non per riguardo dell’odiato negro, ma semplicemente per evitare che si facesse del male da solo.

“Facci sentire qualcosa!” urlò ridendo John Bradwick. “Ti portiamo le galline e te le scopi mentre suoni. Che ne dici?”

Vi fu un veloce silenzio, che tuttavia sembrò quasi volgere per una piccola eternità. Bob non disse nulla, e Bradwick continuò a strattonarlo e a provocarlo, al massimo delle sue possibilità.

Nel frattempo i braccianti si erano tutti fermati, e lo stavano osservando. Incrociò il suo sguardo con il loro. Riusciva a vederli, e gli sembrarono più vicini di prima.

“Sono solo un ubriacone, capo” sussurrò Bob. “Io non esisto…”

Si levò una risata talmente fragorosa che qualche uccello dagli alberi vicini prese il volo. Il cielo stesso venne riempito da questa brutta risata, stridula e grottesca; una di quelle risate inutili, che non conoscono né grazia e né ragione.

“Negro, musicista, ubriaco alle quattordici e venticinque del pomeriggio. Sei proprio una merda schifosa! Che cazzo suoni, amico? Ci stai prendendo per il culo? Non ci sono locali da questa parte. Sei venuto a suonare per i tuoi amici negri? Vuoi scoparteli, o farti scopare da loro?”

I coltivatori continuarono ad osservare, e uno degli uomini si voltò. Urlò loro di tornare a lavorare, ma essi non si mossero. Imbracciò allora il fucile, e tutto tornò alla normalità – i braccianti si rimisero al loro posto e si inchinarono nuovamente nella bambagia, ma tenendo comunque un occhio verso la situazione.

Nel frattempo Bob si mise a piangere, ma senza singhiozzare. Le sue lacrime scorrevano, e si fusero insieme al sudore e all’aria pesante del Delta. “Ho perso tutto, capo… Mi è rimasta solo la musica.”

John Bradwick lo osservò negli occhi, e poi gli sputò nuovamente in un occhio. “Scopa una gallina!” urlò. “E ti lasceremo andare. Ma devi suonare con questa merda di chitarra mentre lo fai.”

Faceva fatica a respirare. “Non posso, signore…” risposte l’uomo. “Non posso… No… Non ho più nulla… Non devo…”

Gli altri uomini iniziavano ad essere perplessi e impazienti di tornare alle loro faccende. Avevano altri progetti quella settimana, e vedere un negro che incula le galline non li faceva sicuramente impazzire. “Che facciamo con questo?” disse sottovoce uno di loro, rivolgendosi ad un suo compagno. “Dobbiamo ancora pensare a Poole”, disse uno di loro. “Non ho tempo per ‘ste merdate da pervertito. Sono un uomo timorato di Dio, io. Va bene uccidere i negri, ma non è il momento, adesso.”

“Buttiamolo nello Yazoo River!” urlò Dayton Dean. Gli uomini bianchi iniziarono a discutere tra di loro, e uno se ne uscì lamentandosi che Dayton Dean fosse un matto da legare: tremava tutto, pieno d’odio. “Suona!” “Fammi sentire come canta un negro!” urlava con frasi sconnesse. Solo quell’urlo si riuscì a distinguere.

Presero Bob, che non riusciva nemmeno a stare in piedi, e lo trascinarono sotto un albero poco lontano. Gli fecero mangiare il terreno, poiché lo spostarono a faccia in giù e lo mossero utilizzando i piedi. Per poco il pover’uomo non soffocò tra le erbe e il fango del Delta. L’erba al limitare della piantagione venne letteralmente intrisa di lacrime e sudore.

Uno di loro prese la sua chitarra e gliela buttò ai piedi, dopo aver spinto bruscamente la sua schiena addosso alla quercia. Quello che Bob vide in quel momento fu solo il riflesso sul campo di cotone; da lontano i braccianti lo osservavano silenziosamente, e nessuno fu più intento ad affondare le mani sulla bambagia.

Tutto quel mondo si fermò, e Bob sentì qualcosa di lontano provenire dai recessi della sua anima, che montava pian piano. Non era odio, non era accettazione, ma nemmeno rassegnazione: era solo il demone della musica che lo perseguitava da sempre. Si faceva largo con la forza tra la sua miseria, e il suo essere ultimo; ne mangiava i ricordi, il passato e il futuro, vibrando tra i fumi dell’alcool.

“Suono…” sussurrò Bob. “Faccio quest’altro patto con voi… Io suono… E voi ascoltate, però.”

Dayton Dean tremava tutto. Voleva ucciderlo, fargli male, in modi che nemmeno lui poteva concepire. I loro occhi si osservarono, per un istante solo; fu abbastanza perché il bianco intravedesse le pupille dilatate del negro, e percepisse qualcosa che non sapeva spiegare.

E allora Dayton Dean si calmò. Bob accordò la sua chitarra, e il gruppo di bianchi restò in silenzio, quasi religioso, fino a quando vi fu un silenzio irreale dopo la messa a punto della sua chitarra emaciata. Tutto il mondo si fermò e roteò allo stesso tempo, come nel momento in cui ci si scorda di qualcosa davanti al naso, e lo si ritrova immediatamente dopo con un sapore completamente diverso, smarriti e confusi.

Sono arrivato al crocevia, sono caduto sulle ginocchia
Sono arrivato al crocevia, sono caduto sulle ginocchia

I negri della piantagione riuscivano a sentire la musica di Bob, trasportata dal vento caldo del Mississippi. S’immobilizzarono totalmente e assunsero un’espressione granitica, come ebani bruciati dal sole.

Ho chiesto al Signore nei cieli, “Abbi pietà ora, salva il povero Bob, per favore”

John Bradwick non riusciva a capire.

Lì al crocevia, piccola, mentre il sole tramontava.
Lì al crocevia, piccola, mentre il sole tramontava.
Io sono pronto a giurare sull’anima mia che ora il povero Bob sta andando a fondo.

Gli uomini col fucile, di risposta, lo strinsero forte vicino al petto. Chi non ce l’aveva era completamente rapito dalla musica che ascoltavano, sotto la grande quercia.

E sono arrivato al crocevia, cara, ho guardato ad est e ad ovest.
Sono arrivato al crocevia, piccola, ho guardato ad est e ad ovest.

Come una figura fuori dal mondo, Bob suonava. Pareva, ai loro spettatori, che vi fossero più persone a comporre armonie. Le melodie si fusero nel suo tutto, e volarono sulle piantagioni di cotone, penetrando nelle orecchie dei negri nel campo.

Signore, non ho nessuna dolce donna con me, beh, cara, nella mia angoscia.

Bob finì di cantare. Fece una pausa, e poi sussurrò alcune frasi che solo Dayton Dean, il più vicino a lui in quel momento, riuscì a sentire.

Non sono nessuno.

Un altro patto, ancora.

Prima o poi le mie pene saranno terminate.

Prima o poi ci sarà solo la musica.

Come mi è stato detto da lui…

Quello che Dayton Dean non riuscì a capire, quello che nessuno di loro riuscirono ad intuire, distratti com’erano dalla musica di Bob, storditi e confusi, era ciò che stava succedendo alle loro spalle.

Si trovarono i negri dei campi vicino a loro. Erano numerosi, e apparvero quasi granitici. Approfittarono di quel momento per cingere con forza le gambe e le braccia dei loro aguzzini. John Bradwick si voltò di scatto, e uno sparo risuonò nel silenzio dopo la musica.

Uno di loro urlò, e un altro bracciante colpì ripetutamente Dayton Dean. Altri spari riempirono la pianura alluvionale del Delta, tra il Mississippi e la Louisiana. Sembrò risuonassero per tutto il Sud, in ogni angolo di mondo.

Bob non sorrise. Non provò nulla. Era appoggiato al fresco della quercia, sotto le sue foglie rigogliose. Sentiva una leggera e piacevole brezza, che iniziò a penetrare tra le rughe accigliate del suo viso. Tornò nel suo stato di semi-coma, come se nulla fosse successo.

Ad Hazlehurst, Robinsonville e a Lucas, fino a Memphis, gli amici di una vita passata lo chiamavano “Bob”. Anche Virginia lo chiamava così, quando era viva. Calletta lo chiamava semplicemente “Robert”.

Quindi, in quel momento, Robert si addormentò. Ascoltò il campo di cotone bruciare tra le fiamme purificatrici, e le urla disumane dei negri riempire il vuoto lasciato dalla sua musica. Udì le urla dei bianchi, e la fuga di alcuni di essi. Non se ne curò, così come non si curava di null’altro a quel punto, se non la sua musica e il suo alcool.

E allora, Robert Johnson riposò un poco, sotto la quercia di una piantagione a lui sconosciuta, a due passi dallo Yazoo River, in Mississippi. Non fece altro, in quel momento, se non dormire.

La mezzanotte prima aveva preso, ancora una volta, un crocevia sbagliato, all’altezza di Fitler, in Louisiana. Lo aveva portato fino a lì. Non ne aveva intenzione – così come qualunque cosa successa fino ad allora nella sua vita su questa terra.

Alessandro

Ingabbiato nella quotidianità e nello straordinario, mischiato tra il rosso del tramonto e la pesantezza dorata dell'alba. Sono autore autodidatta. Mi sento espressivo, solitario e al, contempo, immerso nel tutto, Sono alla ricerca di mille luci e altrettante ombre.
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